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Abitare lo Spazio

Abitare è una pratica relazionale, significa instaurare un rapporto tra il sè e il luogo. Abitare vuol dire conferire una forma al proprio essere nel mondo. Cosa significa per te sentirsi vivo e affermare la tua presenza in relazione allo spazio? Da artista, se dovessi ri-pensare lo spazio pubblico come un tuo spazio personale, come lo abiteresti?

Con questa premessa, Giulia del Gobbo e Ileana Rutigliano, studentesse in Curatela presso la School for Curatorial Studies Venice, hanno lanciato in data 21 maggio 2022, una Call rivolta a giovani artisti e artiste emergenti con l’intento di organizzare a Venezia un evento-mostra dal titolo Abitare lo Spazio. 

Interessata alla tematica proposta ho deciso di partecipare e in seguito all’invio del materiale di candidatura sono stata selezionata insieme ad altri artisti.  

Da questo momento ho avuto a disposizione un tempo di ricerca, dal 2 giugno al 19 giugno, in cui riflettere e progettare un’opera site-specific. Ad ogni artista è stato assegnato un luogo specifico della città di Venezia in cui installare le opere. (vedi flyer in alto)

 

Nel corso della preparazione dell'evento sono stati organizzati degli incontri tra noi artisti, insieme alle curatrici, per discutere e ragionare sul tema della mostra. Momenti di scambio utili ad approfondire e condividere pareri su cosa significasse per noi abitare lo spazio pubblico.

Oltre alla ricerca, sono stati realizzati dei sopralluoghi nel sito a me assegnato: il Sotoportego Licini di Venezia. Ciò ha permesso di familiarizzare con lo spazio e scontrarmi con le difficoltà installative dovute alla sua conformazione, riuscendo infine a trovare, anche grazie all'aiuto delle curatrici, la soluzione ottimale. Analizzando quanto scritto nel concept e ragionando sull’invito finale che veniva fatto a noi artisti, ho avviato una ricerca teorica a cui ho affiancato la creazione di bozzetti e prove installative giungendo all’opera finale, dal titolo “Here Where I Know I AM". 

Here Where I Know I AM


Gli spazi pubblici delle città, come le piazze, i centri storici, deputati alla ritualità dell’incontro, dunque alla relazione e allo scambio, corrono sempre più il rischio di essere svuotati di senso se le persone che li abitano e li attraversano dimenticano di coltivarne memorie e storie. A definire ed evolvere l’identità della città sono gli abitanti stessi. Ma nel frastuono odierno, è ancora possibile decifrare l’identità di questi luoghi?
Ed è proprio su questa domanda che l’opera vuole soffermarsi. Partendo da un luogo anonimo e angusto come quello del Sotoportego Licini, un attraversamento come gli altri, volto a ga
rantire la viabilità della città di Venezia, è installato un filo a piombo con il suo peso rosso e la punta rivolta verso la terra e delle scritte realizzate in pasta di sale con lo scopo di sollecitare la riflessione del pubblico.

Disposto al centro del sottoportico e in corrispondenza dell’apertura verso il cielo, questo oggetto simboleggia metaforicamente l’equilibrio interiore e la continua ricerca di sé nel rapporto con il mondo, mantenendo il proprio centro di gravità. L’installazione da scritte, L’opera invita lo spettatore a calarsi in una dimensione quasi spirituale per poter ragionare sul suo rapporto con i luoghi abitati e per poter riscoprire il valore della lentezza e della sosta nello spazio.

Il ritmo lento e il tempo disteso favoriscono la durata e la continuità necessaria per decifrare gli spazi, affinarne la percezione, coltivare pensieri, percepire il proprio corpo per riconoscersi in uno spazio comune e in un tempo condiviso. In questo modo i luoghi entrano nella memoria custodendo volti, sguardi, suoni, odori, sensazioni tattili. La memoria si conserva in spazi in cui è possibile ascoltare e essere ascoltati. Scrive Calvino in Le città invisibili: “Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere.” 

Nel ribaltamento di un’idea dell’abitare che si ispira al fermarsi e all’indugiare, questo sottoportico riscattato dal suo essere mero luogo funzionale, si trasforma per un momento in un rifugio contemplativo, con le sue linee da decifrare che si diramano e si disperdono verso altri itinerari, così come le tracce disperse da ciascun passante.

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